di Marzia Procopio
C’è una famiglia bellissima, in “Sorry we missed you”, di quelle che i genitori non litigano mai, i figli non vengono mai sgridati né messi in punizione ma solo invitati a riflettere, e se succede è perché c’è una pressione insostenibile. Due genitori che lavorano tantissimo, lei si occupa di anziani da accudire – paga oraria, spostamenti a suo carico – lui costretto a cambiare molti lavori finché decide un giorno di mettersi in proprio. Nella prima scena, nel colloquio in cui il protagonista Ricky ascolta le condizioni di lavoro di questa azienda di trasporti, c’è l’elenco delle parole rubate ai lavoratori di tutto il mondo globalizzato: non “salario” ma “parcella”, non “assunzione” ma “affiliazione”, non “lavori per noi” ma “offri servizi a noi”, e così via: un elenco talmente avvilente nella sua chirurgica spietatezza che la memoria, senza cartella stampa, non lo tiene.
Come i rider…
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